Recensione del critico Federico Caloi sulle opere di Paolo Avanzi
- Paolo Avanzi
- 27 ago
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UN PICCOLO SENTIERO
«L’intelligenza è comprendere prima di affermare, cercare il limite e il suo contrario fino a trovare, tra sé e l’altrui, un piccolo sentiero». Così Roger Leenhardt, nel film di Jean-Luc Godard, Una donna sposata (1964), introduceva il tema della comprensione. È su questo sentiero di sfumature, lontano dagli estremi, che la pittura di Paolo Avanzi prende forma. Lì, dove il visibile non si consegna mai interamente ma si frammenta, si scompone e poi chiede di essere ricomposto, avviene l’esperienza profonda del suo lavoro.
Paolo Avanzi ha costruito una ricerca che non è il risultato di un talento disperso in direzioni differenti, ma il frutto di una vocazione poli-artistica che trova coerenza nella sua stessa natura. Pittura, letteratura, teatro, musica non sono compartimenti stagni ma correnti che confluiscono in un’unica sorgente. La formazione psicologica, gli studi musicali, l’esperienza letteraria si intrecciano con la pratica pittorica e la arricchiscono di una pluralità di prospettive. È per questo che la sua opera non si limita a una superficie, ma si fa sempre riflessione su ciò che la sostiene: il tempo, la memoria, l’identità.
La pittura di Avanzi è riconoscibile, autorevole, scandita da una grammatica che ha nell’atto della frammentazione il suo centro. Le figure emergono come riflesse da specchi incrinati, da griglie che non lasciano passare l’immagine intera ma la moltiplicano in schegge luminose. La tela si presenta come un puzzle in movimento, un insieme di tasselli che separano e insieme uniscono. L’occhio del fruitore si avvicina e scopre il disordine apparente della scomposizione, poi si allontana e ritrova l’armonia segreta del volto, della forma, della vita che riemerge. È un gioco visivo che diventa anche esercizio di coscienza: la verità non è data una volta per tutte, ma nasce dall’incontro tra distanze, prospettive, memorie.
Questa poetica dello specchio infranto non appartiene solo alla tela, ma abbraccia l’intera produzione di Avanzi. Il suo ultimo romanzo, significativamente intitolato Lo Specchio Infranto, è dichiarazione e insieme conferma. In quella narrazione la vita stessa si riflette come un’immagine che non si lascia mai cogliere intera: frammenti di memoria, echi di presenze, un futuro che si immagina attraverso le rovine di un passato. La corrispondenza tra romanzo e pittura è evidente: la scrittura e il colore raccontano lo stesso destino, quello dell’identità, che non può più presentarsi come figura compatta, ma come sequenza di brandelli che forse solo l’arte sa riorganizzare. Lo Specchio Infranto non è metafora ornamentale: è manifesto. Il romanzo proietta l’autore in una fantabiografia ambientata cinquant’anni dopo la sua morte — una casa sul lago di Como che conserva memorie e assenze, una sparizione che lascia un vuoto da ricomporre. Non è difficile vedere la corrispondenza tematica fra quel testo e le tele: il soggetto scompare e si ricostruisce nella memoria, la figura si frantuma e reclama ricomposizione, la narrazione è un’operazione di montaggio di brandelli di vita. Di più: la finzione romanzesca, con la sua scansione temporale e la sua inquietudine intimista, fornisce alla pittura di Avanzi un registro narrativo che spiega la frammentarietà non come mero artificio formale ma come strategia per raccontare il tempo e l’identità.
Sul suo processo pittorico la critica ha letto, con ragione, un’eco baconiana, una matrice esistenziale che usa la deformazione come indagine psicologica. C’è in Avanzi una tensione drammatica che richiama, per analogia, anche l’esperienza fotografica di Maurizio Galimberti. La scomposizione dell’immagine in mosaici fotografici, che restituisce il volto come presenza frammentata e ricomposta. Avanzi con la pittura, Galimberti con la fotografia, mostrano la medesima condizione del contemporaneo: l’impossibilità di possedere un’immagine univoca, la necessità di attraversare l’infranto per scorgere un senso. Entrambi costringono l’osservatore a compiere un atto attivo, a ricostruire nel proprio sguardo ciò che l’opera volutamente dissemina. Una identità frammentata che rispecchia la verità; l’assoluto non esiste.
Non si tratta di un artificio formale, ma di una scelta esistenziale. La frammentazione diventa linguaggio della nostra epoca, segno del tempo in cui l’identità non è mai salda ma in perenne oscillazione. Così, la tela di Avanzi, come la sua pagina scritta, non offre una risposta definitiva, ma invita a convivere con l’irrisolto. È un’arte che non consola, ma che rivela: ci ricorda che ciò che siamo è composizione di una scomposizione, di tanti Io, Es Super-io (Freud), come il riflesso di un volto nell’acqua increspata.
La qualità di questa ricerca sta nella sua coerenza e nella sua capacità di rinnovarsi. Nei lavori recenti Avanzi ha semplificato la trama dei tasselli, riducendo le griglie, aumentando la potenza del colore e della materia. Ne emerge una forza ancora più diretta, che non rinuncia alla frammentazione ma la rende più essenziale, come se la pittura cercasse ora di affondare più in profondità, di cogliere la radice dell’immagine.
Paolo Avanzi appartiene a quella categoria di artisti per cui l’arte non è un mestiere ma una condizione esistenziale. La sua opera ci dice che l’identità non può più essere pensata come superficie integra, ma solo come specchio infranto. È nel “piccolo sentiero” di Leenhardt, tra “il limite e il suo contrario”, tra distruzione e ricostruzione, che si colloca la sua pittura: non un compromesso, ma una rivelazione.
Federico Caloi
Critico e curatore d’arte
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